Vi è mai capitato di provare delle emozioni spiacevoli come ansia o tristezza o di aver passato un periodo difficile nella vostra vita? Avete mai avuto delle preoccupazioni intense per qualcosa a cui tenevate molto? Vi siete mai ritrovati a rimuginare a lungo su una situazione futura che temevate di affrontare? O vi siete mai soffermati a pensare e ripensare a un errore o uno sbaglio che avevate commesso? Vi siete mai criticati per la vostra sofferenza? Immagino che la vostra risposta sia sì. E non perché vi conosco, ma perché è normale e non siete soli. Vale per voi come per chiunque altro: non è colpa nostra se soffriamo.
Ma permettetemi di spiegarvi. Oggi mi piacerebbe introdurvi a una verità forse scomoda ma allo stesso tempo rassicurante, che permetterà di fare chiarezza su alcuni processi mentali e vissuti emotivi che esperiamo in quanto esseri umani. Possediamo cervelli complicati.
Come è fatto il nostro cervello?
Un modo semplicistico ma molto utile per descrivere il nostro cervello è di pensarlo come se fosse diviso in aree antiche e aree nuove, così da chiamarlo rispettivamente cervello antico e cervello nuovo.
- Il cervello antico è il prodotto di centinaia di milioni di anni di evoluzione e alcune delle sue strutture sono molto simili a quelle di altre specie. In particolare parliamo di:
- Cervello rettiliano, la cui funzione riguarda l’appagamento dei bisogni fisiologici (fame, sete, temperatura etc.), la lotta, la fuga e l’accoppiamento.
- Cervello mammifero, la cui funzione soddisfa bisogni più relazionali di cura, di ricezione di affetto, di comunicazione, di stretta di legami. Questa parte è quella che riveste un ruolo chiave nel funzionamento delle emozioni di base come ansia, rabbia, tristezza e gioia.
- Il cervello nuovo è di recente costituzione ed è una prerogativa degli esseri umani. Questa area ha dato origine a straordinarie abilità come l’immaginazione, il pensare al futuro, la capacità di pensare il nostro pensare (metacognizione) e la facoltà di riflettere su episodi passati. Tutte queste abilità hanno permesso alla nostra specie di fare cose incredibili, come sviluppare la scienza e la tecnologia.
Queste due parti del nostro cervello, antico e nuovo, interagiscono tra di loro, per cui le capacità di pensare, immaginare, rimuginare e preoccuparsi si rapportano con bisogni ed emozioni del cervello antico. Talvolta però può capitare che queste due parti si inceppino, creando dei corto-circuiti.
Facciamo un esempio
Immaginiamoci una gazzella che si sta abbeverando a una fonte di acqua. Improvvisamente avverte dei rumori e scorge la presenza di un leone. Immediatamente sospende l’abbeveraggio per mettersi in fuga e trarsi in salvo (comportamento finalizzato alla sopravvivenza). Una volta che il pericolo è scampato e il leone non è più una minaccia, secondo voi che cosa farà la gazzella? Si calmerà abbastanza velocemente e tornerà a bere la sua acqua ad un’altra fonte.
Immaginiamoci adesso uno scenario simile ma con un protagonista differente, noi. Siamo usciti di domenica mattina per andare a bere un buon caffè al bar all’angolo e ce lo stiamo gustando con una bella brioche di accompagnamento. Improvvisamente sentiamo dei rumori e ci accorgiamo che c’è un leone che ci sta puntando. Immediatamente come la gazzella interrompiamo la nostra attività e ci mettiamo in fuga in cerca di riparo. Probabilmente come specie non saremmo in grado di sopravvivere se un leone ci si mettesse contro, ma facciamo finta che siamo stati fortunati e di essere riusciti a ripararci dentro un centro commerciale.
Secondo voi che cosa faremmo dopo? Torneremmo come la gazzella a cercare un’altra fonte di abbeveraggio per riprendere l’amata abitudine domenicale? Non credo. Qui il cervello nuovo l’avrebbe da padrone. Con le sofisticate abilità che possediamo continueremmo a figurarci la presenza del leone nella nostra mente come se fosse ancora presente, inizieremmo a ripensare all’accaduto analizzando i dettagli della situazione, ci inizieremmo a chiedere se sussiste la possibilità di reincontrare il leone, intraprenderemmo un’attività rimuginativa intensa volta a capire come affrontarlo o come mettersi in salvo. Insomma si attiverebbe in noi uno stato di minaccia difficile da sedare che potrebbe durare per ore o giorni.
E questo è esplicativo di come l’interazione tra parti antiche e parti nuove del nostro cervello può dar vita a dei corto-circuiti e creare stati di forte sofferenza.
C’è di più…
Un altro aspetto che ci differenzia rispetto ad altre specie è che sì il nostro cervello è complicato, però per sé desidera chiarezza, semplicità e coerenza. Che significa? Che spesso quando ci succede qualcosa di spiacevole o ci ritroviamo in una condizione di sofferenza la nostra mente va alla ricerca di motivazioni e ragioni plausibili per giustificare la condizione, ma per farlo vuole investire poche energie e risorse. E questo come si traduce? Che talvolta arriviamo a dare la colpa a noi stessi di ciò che viviamo e del nostro dolore. Quindi non solo stiamo male ma arriviamo addirittura a darci la colpa. Come potrà farci sentire questo secondo voi? Ancora peggio!
Soffriamo e ci critichiamo.
Ma è importante considerare che… non è colpa nostra
Esatto hai capito bene, non è colpa nostra. Non ci siamo scelti i nostri cervelli. Non ci siamo scelti i nostri pensieri. Non abbiamo scelto noi di sentire le emozioni. Non abbiamo scelto noi il nostro passato, le nostre prime esperienze. Non abbiamo scelto le nostre strategie di gestione emotiva. Non abbiamo scelto l’autocritica. E soprattutto non abbiamo scelto noi di soffrire.
E questo cosa implica? Che non possiamo fare niente? Che siamo impotenti? Certamente no.
Possiamo prima di tutto renderci conto che il nostro cervello funziona allo stesso modo di quello di tutti gli altri uomini e donne su questo pianeta, che “siamo tutti sulla stessa barca” e che ciò che è in nostro potere è di osservare con curiosità alla nostra condizione umana, in particolare al modo in cui il nostro cervello funziona e ai cortocircuiti che crea. Questo è il primo passo per lasciare fuori dalla porta quella vocina critica che ci dà la colpa, per favorire invece l’apertura a un’altra dimensione, quella della responsabilità. Non è colpa nostra se soffriamo, ma è nostra responsabilità addestrare la nostra mente nella direzione del nostro benessere.
E quale miglior modo di assumerci la responsabilità se non quello di concedersi la possibilità di intraprendere un percorso psicologico, fermandosi, guardandosi dentro e cominciando a fare chiarezza su ciò che genera in noi malessere e su come possiamo imparare a stare meglio.
Attenzione! Questo è un passo che richiede coraggio, perché è un atto compassionevole che faremmo nei nostri confronti, è un atto forte e deliberato di far emergere, nel contesto di una vita frenetica e impegnata, il bisogno di fermarsi e di dirci “ora mi concedo del tempo per me”, “ora è tempo di imparare a volermi bene”.
E voi cosa ne pensate? È arrivato quel momento per voi?